“Si dice acqua”: intervista a Emanuele Fantini

“Si dice acqua, si legge democrazia”: questo il motto dei movimenti contro la privatizzazione dell’acqua che hanno giocato un ruolo fondamentale a ridosso del referendum del 12 e 13 giugno 2011. A distanza di 10 anni Emanuele Fantini, oggi ricercatore a IHE Delft – Institute for Water Education (Paesi Bassi) ha ripercorso ciò che è accaduto in un podcast.

Con “Si dice acqua”, Fantini ha raccolto in un podcast le testimonianze di chi era impegnato in questi movimenti. Abbiamo fatto una chiacchierata con lui per parlare di privatizzazione dell’acqua, del rapporto che l’Italia ha con l’acqua e della sua scelta di utilizzare il podcast come strumento di comunicazione.

Per quanto riguarda un paese come l’Italia, nella vita di una persona normale cosa cambierebbe se l’acqua venisse privatizzata?

Emanuele Fantini: “Intanto esiste in Italia una forma di acqua privatizzata che è l’acqua minerale. È una via per privatizzare e mercificare l’acqua su cui sono state scritte molte inchieste, penso soprattutto al vecchio caporedattore di Famiglia Cristiana, Giuseppe Altamore, che nei primi anni del 2000 aveva scritto diversi libri su questo tema. Vuol dire che se ci pensiamo un bene comune che appunto appartiene alla collettività viene imbottigliato, o comunque c’è un soggetto privato che se lo accaparra e lo utilizza a fine di lucro, pagando pochissimo in termini di concessioni e registrando dei profitti incredibili. Basta vedere quanta pubblicità sull’acqua minerale, sull’acqua in bottiglia viene fatta per avere un’idea del volume di prodotti, del volume di affari.

Per quanto riguarda la gestione del servizio idrico, degli acquedotti, il problema è molto più articolato, c’è tuttora un dibattito su cui i movimenti e gli enti locali si sono poi spaccati. Che cosa vuol dire privatizzare e che cosa vuol dire ripubblicizzare una volta che si è privatizzato? Uno dei modelli di gestione dell’acqua più diffuse è quello di società per azioni come la SMAT – Società Metropolitana Acque Torino, che sono a totale partecipazione pubblica, ma sono delle S.P.A. E questa è una gestione pubblica o una gestione privata?

Si dice acqua
Foto di Rossella Alba

È difficile parlare di servizio idrico integrato in una grande città come Torino: si tratta di servizi industriali complessi, sia ad alta intensità di capitale che ad alta intensità di tecnologia, per cui è molto difficile capire il confine tra pubblico e privato. Mi ricordo di una visita fatta tanti anni fa all’impianto di depurazione di SMAT, che prendeva l’acqua dal Po e la depurava. Uno dei reagenti che serve per questo processo di depurazione, per rendere l’acqua potabile, in Europa prevede un unico produttore. Quindi un servizio strategico come la depurazione dell’acqua dipende, per tutti quei sistemi in Europa che adottano il sistema di SMAT, da un unico rivenditore privato. Se quello lì fallisce o chiude, cosa si fa? Una gestione di enti locali attraverso un’S.P.A., è pubblica o privata? La risposta dipende da chi riesce a partecipare, a seconda di quanto tu riesci a influire in questo processo. Se sei il sindaco di Torino e hai più quote nel consiglio di amministrazione di SMAT, ti sembra che come controllore pubblico hai una certa influenza. Già se sei un consigliere comunale che risiede nella commissione ambiente del comune hai molta meno voce in capitolo in quanto rappresentante dei cittadini. Perché tu come consigliere comunale puoi controllare la tua giunta, ma non riesci ad arrivare al consiglio di amministrazione di SMAT. Il tipo di documentazione, di canali che uno ha a disposizione per controllare e incidere in questi ambiti è molto più limitato anche se sei anche il sindaco di un piccolo comune che fa parte della provincia di Torino, ma che ha poche quote e quindi non ha un vero peso nel momento in cui si devono prendere le decisioni. Decisioni che poi sono anche estremamente tecniche nella gestione quotidiana. Questo è l’altro grande problema, perché se sei un attivista dei movimenti e vuoi partecipare e essere informato, i canali sono ancora più limitati nel caso di un’S.P.A. Dovresti magari trasformarti in azionista, però entrando in una logica diversa. Questo è uno dei problemi che sono rimasti irrisolti dopo il referendum.

La gestione dell’acqua in un acquedotto come quello di Torino, anche già sapendo da dove arriva l’acqua, come viene gestita, come viene depurata, è che si tratta di servizi estremamente complessi in cui il dato tecnico gioca un ruolo fortissimo, in cui noi cittadini facciamo fatica a partecipare e d’altra parte è anche bene che alcune decisioni vengano delegate ai tecnici, agli esperti, a chi ha studiato.

Al tempo stesso l’acqua non è come i rifiuti, non è come il gas, come l’energia, come gli altri servizi pubblici. Ha un valore simbolico, spirituale, culturale, per cui comunque noi non accettiamo che siano soltanto i tecnici, siano soltanto quelli del Consiglio di amministrazione dell’S.P.A., sia soltanto il sindaco, l’assessore a decidere come viene gestita. Proprio perché è un bene, una risorsa che ha una dimensione spirituale, etica, morale, culturale che richiede un certo tipo di discorsi, di attenzione, di sensibilità e che non è solubile in una mera gestione tecnica del servizio. Quindi questa dimensione va presa in considerazione e andrebbe coltivata. Io renderei obbligatorie a tutte le scuole, a tutte le classi una visita all’acquedotto per capire cosa succede quando tiriamo l’acqua, sarebbe a mio avviso un esercizio di educazione civica importantissimo.

Come mai hai scelto di parlarne proprio in un podcast?

Lo studio di registrazione di Emanuele durante il lockdown

EF: “All’indomani del referendum io e una collega che come me era all’università di Torino e che si era già a sua volta occupata di acqua abbiamo pensato di capire che cosa fosse successo, le origini e che cosa ha portato al successo dei referendari. Così abbiamo iniziato la nostra ricerca, che abbiamo pubblicato in un libro nel 2013, “Si scrive acqua”. Nel 2020, quando è iniziato il lockdown, io mi sono ritrovato a lavorare nella mia camera da letto a Delft, qui in Olanda. Qualche mese prima avevo anche accompagnato le mie figlie, che allora avevano sugli 8-10 anni, a qualche manifestazione dei Fridays for Futures. Avevo trovato interessante il fatto che questa sia una generazione di attivisti che è nata proprio negli anni in cui in Italia c’era stata questa mobilitazione significativa, unica per molti versi, perché poi altre mobilitazioni di questo tipo, con lo stesso livello di partecipazione, coinvolgimento, risultati non ci sono state. Ho pensato potesse essere interessante tornare su quell’esperienza per vedere che cosa può insegnare a mobilitazioni che si ricollegano ai beni comuni, come quelle sul clima. Quindi poi durante il lockdown, insegnando in un master di antropologia culturale a Utrecht e parlando con gli studenti che dovevano fare la tesi online, dicevo loro di lavorare su un tema che conoscevano un po’, che fosse loro vicino, perché almeno parlando e intervistando le persone da remoto potevano immaginare il contesto in cui vivono, le problematiche di cui parlano. Poi mi sono accorto che io ero però un po’ il primo a non praticare quello che insegnavo, perché stavo facendo ricerca e tuttora lavoro soprattutto sul bacino del Nilo, per cui mi sono detto sarebbe stato interessante riprendere in mano quella ricerca per capire dove sono finiti tutti questi beni comuni. Quindi ho riattivato una serie di contatti, di persone che avevamo intervistato 10 anni prima, dentro e fuori i movimenti, il movimento per l’acqua, e poi mi sono detto, visto che le interviste sono online, vengono registrate, perché non raccoglierle in un podcast, anche per comunicarle in una maniera meno tradizionale al di fuori dei circuiti accademici? Io avevo già registrato un altro podcast, proprio sul Nilo.

Il podcast ti permette non solo di riportare per scritto quello che le persone ti dicono, ma facendo sentire la loro voce fai sentire anche le emozioni che ci sono dietro. Un’altra cosa che ho imparato è che anche il podcast è uno strumento di ricerca, perché è permette di coltivare, di costruire relazioni ancora più dell’intervista tradizionale, perché tu comunichi e riconosci un’autorità, un’autorevolezza al tuo interlocutore dicendogli “io non solo ti intervisto, ti ascolto, prendo nota, ma penso che tu abbia anche la dignità e sia importante che la tua voce venga diffusa”, quindi è un riconoscimento di un’autorità, di una competenza che rafforza la relazione ed è uno strumento che ti obbliga a pensare al pubblico. Molto più che quando scrivi un articolo, perché la maggior parte delle cose che si scrive all’università si scrivono per una cerchia di colleghi che possono essere interessati, con un linguaggio molto tecnico, mentre il podcast ti obbliga a pensare a chi vuoi raggiungere, a chi stai parlando, e devi anche riconoscere la fedeltà o l’impegno che uno ci mette, perché quando ascolti un podcast, dici “la prossima mezz’ora la passo con Emanuele Fantini che mi parla nelle orecchie”. È una grande responsabilità e quindi uno deve anche cercare di offrire, raccontare una storia che si meriti, si guadagni questo onore e questa responsabilità. È uno slow medium, uno strumento più riflessivo e più intimo, quando scrivi un paper devi essere robusto, strutturato nella tua introduzione, analisi, conclusioni. Il podcast è uno strumento più aperto in cui si parla, ascolta, intervista, ma molto spesso è una conversazione più dialogica che dialettica, in cui ascolti tanti pareri e non necessariamente c’è una sola conclusione, ognuno può prendere quello che richiede o immagina. Rispetto al video che fornisce tutto, l’audio, le immagini, il suono, il podcast libera l’immaginazione e poi ognuno è anche libero di ascoltarlo a modo suo.

Il logo del podcast

Devo anche ringraziare la mia capo di dipartimento che mi ha dato i fondi per pagare l’editing, il mixaggio del suono e dell’audio e il tempo per farlo. Da lì poi ho iniziato anche a usare il podcast come strumento didattico in classe, chiedendo agli studenti di registrare il loro“.

Secondo te sarà necessario fare lo stesso lavoro a maggiore distanza di tempo?

EF: “Io immagino uno storico che guardasse tra 50 o 100 anni quello che è successo tra i primi anni di questo secolo in Italia: sicuramente il referendum salta agli occhi perché è stato il primo referendum che ha superato il quorum dopo i 14-15 anni precedenti. Era la prima volta che un referendum che ha superato il quorum non era proposto da partiti politici ma da movimenti, gruppi della società civile. Era l’anno, il 2011, in cui in altri contesti c’erano gli Indignados in Spagna, Occupy Wall Street, le Primavere Arabe, ovviamente movimenti tutti molto diversi. E in Italia la partecipazione e l’attivismo politico si era un po’ riversato in quella cosa lì, quindi è un evento peculiare nella storia italiana, che permette di fare dei parallelismi, di stabilire delle differenze tra l’Italia e altri paesi. Quindi come storico potrebbe essere interessante capire come all’improvviso c’è stato questo referendum, che è un po’ quello che abbiamo provato a fare con il libro e poi con il podcast, uno non può spiegarsi il successo referendario se non vai a vedere cosa è successo dieci anni prima e non ricostruisci tutta la storia del movimento.

Quello che ho imparato studiando e anche partecipando a questo movimento e che poi sono anche cose che sono venute fuori nel podcast è innanzitutto l’importanza di fare cultura, cioè per muovere le persone, spingerle a partecipare, ad attivarsi, è importante fare cultura e il risultato del referendum, io credo sia anche stato possibile perché dieci anni prima, proprio su ispirazione del contratto mondiale dell’acqua, Petrella, quei movimenti lì, si era partiti con tutta una serie di iniziative nelle scuole, delle mostre fotografiche, azioni che all’epoca erano proprio di educazione e sensibilizzazione culturale. All’inizio il movimento italiano era andato dicendo che dobbiamo promuovere una nuova cultura dell’acqua, partendo con un lavoro a fari spenti, molto radicato sul territorio, ma senza rivendicazioni nazionali, che però pian pianino ha permesso di creare quel senso, quella massa critica che poi ha contribuito al referendum. Fare cultura, utilizzare un linguaggio semplice, chiaro, ma anche radicale, è importante, ed è una cosa che mi hanno detto diverse persone. La capacità del movimento è stata quella di creare una vasta coalizione, anche perché aveva un messaggio da un lato semplice, con un linguaggio accessibile a tutti, non di nuovo richiudendosi nei cerchi di alcuni movimenti, di un certo tipo di politica, ma al tempo stesso aveva un messaggio radicale, che è stato anche parte del successo, l’acqua non è in vendita, è un bene comune e non può essere considerata una merce.

Un’altra cosa importante è la capacità di tenere insieme la dimensione locale e quella internazionale e globale, cioè quello che ha fatto secondo me il movimento, che altri movimenti non sono riusciti a fare. Nel podcast c’è sempre un via vai tra Italia e America Latina, perché molti raccontano di come anche le battaglie italiane sono state ispirate da idee di battaglie, combattute in America e Latina e altri movimenti. L’anno prima c’è stato il movimento contro la guerra in Iraq, che però lavorava solo su un livello internazionale e globale, e poi la guerra non si è riuscita a fermare e quindi quel movimento era imploso. Qui lavorando sia sul locale che sul globale si riuscivano anche a vincere delle battaglie sui territori e questo permetteva di alimentare e di ispirare al tempo stesso il movimento, quindi tenere insieme le diverse scale.

Una peculiarità è stata la capacità di allearsi anche con le istituzioni locali, non solo movimenti, ma anche lavorare con i sindaci, con gli assessori, con i consigli comunali, entrando nelle istituzioni e provando anche a cambiare le istituzioni. Molti consigli comunali riconoscevano l’acqua come bene comune, diritto umano fondamentale, e questo poi ha portato anche a un uso creativo del diritto: lo descrive proprio così una giurista, Alessandra Quarte, per cui sapendo utilizzare gli strumenti giuridici esistenti, la legge di iniziativa popolare, le delibere comunali per far avanzare le istanze del movimento, che è qualcosa che adesso sta iniziando a prendere piede, se ci pensi anche nel movimento del clima, con tutte queste azioni legali che le capacità e le imprese e gli stati che non rispettano gli impegni internazionali. Alcune di quelle cose, di quelle esperienze per fortuna stanno continuando, hanno preso piede, altre sono ancora lì, però secondo me è una bella storia da raccontare, che può ispirare“.

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