Il Tevere in canoa

Quattro giorni sul Tevere, insieme all’Associazione per la Discesa Internazionale del Tevere, ci danno lo spunto per riflettere sulla funzione degli sport outdoor come collante sociale e monitoraggio della salute delle acque locali.

«Avanti col busto, non stai prendendo il sole!» Mi grida Ferdinando, uno dei responsabili della sicurezza, mentre pagaio all’impazzata e cerco disperatamente di non cascare in acqua. Non casco per pura fortuna, e con la coda fra le gambe mi metto in morta – la parte di fiume in cui l’acqua è ferma.

La prima rapida è andata, penso con un sospiro.

Dietro di me, sul sit-on-top biposto che mi porterà sul fiume per i prossimi giorni, c’è Roberto Crosti, coordinatore della Discesa Internazionale del Tevere e ricercatore, che si è bonariamente offerto di monitorare i miei goffi tentativi da principiante. Intorno a noi, man mano che scendono dalle rapide, si accumulano kayak, canoe e SUP di ogni forma e dimensione, per un totale di più di cinquanta partecipanti.

Il fischietto risuona nell’aria, un solo lungo fischio, e il gruppo si muove, scende lungo il fiume in una migrazione multicolore.

Quella a cui partecipo è la quarantacinquesima edizione, e dai racconti dei veterani apprendo che, anno dopo anno, la Discesa è rimasta fedele a sé stessa. Dopo i primi tentativi di discesa portati avanti da pochi eroici pionieri, a partire dal 1982 Francesco Bartolozzi, leggenda della canoa italiana,  le ha dato una forma più aperta, di esperienza per tutti, e ha sancito “i risvolti culturali ed il rispetto per l’ambiente strutturalmente correlati a tale pratica” (dal suo Pagaia controcorrente, 2003).

La DIT sembra essere in perfetta linea con la sua impostazione originale. Mentre pagaiamo lungo la prima tratta, mi colpisce la quantità di coppie, di famiglie e di giovanissimi che mi circondano.

Quella sera ci accampiamo nell’Ex Tabacchificio di Umbertide, struttura polivalente riqualificata che oggi ospita i corsi e le iniziative delle associazioni locali. Dopo un po’ di wrestling per togliermi la muta e una doccia veloce negli spogliatoi del campetto da calcio, andiamo a cenare al Centro sociale Le Fonti, portandoci dietro la nostra gavetta. La fame è tanta, e le tavolate si lanciano sul cibo preparato dai volontari, fra risate, brindisi e applausi ai cuochi. A parte il cellophane per gli affettati, e gli imballaggi dei pochi ingredienti presi dal supermercato, la cena è completamente waste-free.

Il giorno successivo, raccolti sulla sponda erbosa dove avevamo assicurato le canoe la sera prima, incontriamo Gianluigi Bini, fondatore del Museo malacologico di Città di Castello. Seduto sull’erba e circondato dalle sue conchiglie, il professor Bini ci parla dei molluschi del Tevere, autoctoni e non. Ci spiega che, in quelle acque si consuma non vista una guerra coloniale fra specie rivali. L’invasore è un mollusco arrivato dalle Filippine sulle vie del commercio internazionale:  è più grosso, più vorace e più veloce a riprodursi della sua controparte tiberina.

Il partecipante Lars, vedetta dei molluschi fluviali 2024

Per noi che scendiamo lungo il fiume, questa non è conoscenza fine a se stessa. Dall’anno prima, l’organizzazione della DIT ha infatti deciso, insieme all’associazione Malakos di Bini, a Citizen Science Italia e al ricercatore indipendente Mauro Grano, di imbastire un progetto di Citizen Science, coordinato da ISPRA, sulla catalogazione e il monitoraggio dei molluschi fluviali– rintracciabile all’ironica dicitura #Teveremolluschifantastici—e dove trovarli. Da qui in poi, dunque, facciamo soste strategiche lungo le sponde ghiaiose, o sabbiose, e aguzziamo la vista per individuare i resti esoscheletrici di questi molluschi, fotografarli e inserirli nell’apposito database.

 

 

La sera arriviamo all’ “accampamento” designato, facciamo la doccia (quasi sempre calda) e andiamo a mangiare ospiti di un’altra associazione locale, stanchi e contenti – qualcuno, a fine serata, anche un po’ brillo.

I giorni passano e, pian piano, comincio a perdere la paura del fiume. Complici gli accorati rimproveri delle guide e i pazienti consigli di Roberto, comincio a districarmi, a capire come seguire la “lingua” – la corrente di superficie che traccia come una strada d’acqua – ma a non lasciarmi sbattere contro sponde, scogli e alberi, quando attraversiamo le anse del fiume.

La sera arrivo meno stanco, ho le forze per godermi le visite a realtà simbolo della zona (la Badia Pretoia, l’Ecomuseo del Tevere), di comprendere in che modo la Discesa diventa uno strumento di divulgazione e di interconnessione per le comunità locali. Non è facile farlo capire alla gente, mi confessa Roberto, spesso si è concentrati sulla propria piccola realtà, si pensa all’utile immediato, e, aggiungo io, tessere fili tra i singoli entusiasmi non è mai semplice. Eppure, nonostante le resistenze, la Discesa non si dà per vinta.

'Badia Pretoia
‘Badia Pretoia
Torre del mulino, Pretola

A questo punto, impossibile non pensare alle parole di Bartolozzi: “poiché il canoista si bagna dell’acqua che percorre anche quando non abbia a rovesciarsi [per quel che vale, sottoscrivo, NdA], è portato a rivendicare che rispettosi dell’ambiente lo siano anche gli altri utenti dei corsi d’acqua; egli è, cioè, un ambientalista ‘ante litteram’”. La cura per il territorio fluviale e per tutto quello che contiene sembra emanare dalla passione per la pagaia, a forza di osservare il fiume per coglierne i cambiamenti e individuare la via, di lanciarsi, sempre in sicurezza, fra le sue rapide. Ecco che, quelle che all’inizio sembravano due anime distinte – il canoismo e l’ecologia di ambiente e comunità – si scoprono essere una cosa sola, un impasto che si ripete annualmente e offre i suoi frutti a chiunque voglia coglierli.

A esperienza finita, mentre rientro in treno a Torino, mi sento sollevato alla prospettiva di passare un giorno intero all’asciutto, ma già un filo di nostalgia si insinua in quel sollievo. Per lenirlo, immagino ancora di pagaiare – movimento che risuona nella mia memoria muscolare – e intanto ripeto mentalmente il mantra della sicurezza fluviale: “Non si cammina nel fiume in corrente”. Ringrazio con un sorriso i canoisti che mi hanno accompagnato in questi giorni, e lascio che la corrente immaginaria mi riporti a casa.

Foto di rito all’arrivo

Scrive per noi

Andrea Puglisi
Andrea Puglisi
Classe 1992, laurea in lingue e master in traduzione editoriale. In buona sostanza un nerd del linguaggio e della conoscenza, ha fin da piccolo la passione per la divulgazione scientifica (lo prendono ancora in giro per i VHS di Jacques Cousteau). A fianco al lavoro in ambito editoriale, scrive e allestisce spettacoli teatrali in cui parla di salute delle acque e tensioni geopolitiche. Nel frattempo, aspetta l’occasione di imbarcarsi su un veliero che raccoglie plastica.

Andrea Puglisi

Classe 1992, laurea in lingue e master in traduzione editoriale. In buona sostanza un nerd del linguaggio e della conoscenza, ha fin da piccolo la passione per la divulgazione scientifica (lo prendono ancora in giro per i VHS di Jacques Cousteau). A fianco al lavoro in ambito editoriale, scrive e allestisce spettacoli teatrali in cui parla di salute delle acque e tensioni geopolitiche. Nel frattempo, aspetta l’occasione di imbarcarsi su un veliero che raccoglie plastica.

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