La geografia delle terre che si affacciano sull’Oceano Indiano è cambiata in poche ore e non è escluso che in futuro ci siano conseguenze che ancora non possiamo immaginare.
Dopo l’onda
Naturalmente si è parlato di onda assassina, di mare nemico dell’uomo, di natura personificazione del male come se questa potesse agire secondo un disegno preordinato. E questo lo si è letto nei giornali, lo si è ascoltato da radio e televisioni e l’ho sentito riproporre anche in alcune prediche meno illuminate del solito. In effetti non poteva essere diverso. È naturale che di fronte a queste catastrofi si cerchino spiegazioni e ci si chieda di chi è la colpa e, naturalmente, la risposta più semplice è incolpare il mare soprattutto perché a essere colpiti sono state terre che nel mare avevano trovato una fonte di cibo e ricchezza, un amico caldo e colorato che attirava migliaia di turisti. Ma il mare non si preoccupa dell’uomo, e può dare e togliere nello stesso tempo senza che nessuno lo possa impedire.
Naturalmente è scattata una grande gara di solidarietà con le popolazioni colpite a dimostrazione che, volendo, l’uomo può fare molto per i suoi simili. Innaturalmente, ma molto umanamente, sono subito iniziati dissidi su chi dovesse gestire l’emergenza e come, fino ad arrivare all’assurdo di rifiutare gli aiuti perché inviati da genti di credo diverso. E questo è purtroppo l’elemento più grave, quello su cui riflettere. Il mare ha grandi risorse e troverà nuovi equilibri; gli scienziati avranno materiale di studio per decenni, le logiche del mercato daranno vita a nuove economie; ci saranno nuovi ricchi e nuovi poveri; sorgeranno nuovi alberghi e resort; ritorneremo (ed è giusto che così sia) a sdraiarci su quelle spiagge bianche e a nuotare in quei mari caldi.
Mentre tutto tornerà come prima, nella mente dell’uomo rimarranno le rivalità e l’odio, personali “tsunami” che nessun sistema di allerta riuscirà a fermare e destinati a fare più vittime del recente disastro.
Ci è stata data un’occasione per riflettere. Non sprechiamola!
Numero 7 – Febbraio 2005, di Angelo Mojetta
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