La recente catastrofe di Fukushima, che si potrebbe anche ribattezzare l’imprevedibile prevedibile, ha riportato al centro dell’attenzione il concetto di rischio, un elemento che sembra difficile escludere dalla nostra vita. Ricordando cosa diceva Einstein «Dio non gioca a dadi, ma l’uomo evidentemente sì» e, a ben pensarci, già il semplice atto di esistere rappresenta un rischio più o meno consapevole. Però, fino a quando questo rischio rimane confinato al singolo individuo, possiamo dormire (si fa per dire) sonni tranquilli. Ciascuno, in nome del libero arbitrio, può decidere che cosa è bene e cosa è male, che cosa è giusto o non giusto fare. È altrettanto vero che rischiare è stato ed è tuttora una molla potente dell’evoluzione umana. I nostri più lontani antenati si sono assunti il rischio di scendere dagli alberi e di cominciare a vagare nelle savane. Sicuramente qualcuno li avrà definiti pazzi ma, passo dopo passo, ci hanno portato al 2012 e regalato un mondo pieno di meraviglie.
Ben diverso è il problema che insorge quando il rischio riguarda il nostro prossimo ed entra in gioco la sicurezza, una parola che si cita pressoché quotidianamente per sostenere scelte politiche difficili o socialmente poco gradite (es. nucleare, ogm, guerra, immigrazione).
Ma i tanti che agitano la bandiera della sicurezza dimenticano, o non sanno, che si tratta di una scienza e che, come tale, è oggetto di ricerca. Esiste addirittura una formula del rischio, secondo la quale: Rischio = probabilità evento x conseguenze dei danni Così, come ci spiegano, un evento con probabilità minime di verificarsi e danni elevati può ottenere lo stesso indice di rischio di un evento con probabilità maggiore ma minori conseguenze. L’oggettività della valutazione fa sì che si parli di “rischio obiettivo”. È, quindi, un rischio calcolato prendere l’aereo poiché il numero degli incidenti in un anno rappresenta un minima parte delle ore di volo complessive di tutti gli aerei.
Attenzione però a non confondere questa formula-rischio o il rischio calcolato anche per giustificare scelte pubbliche sgradite. Il rischio obiettivo ha validità soltanto se la probabilità dell’evento è misurata in modo scientifico mediante test ripetuti o dall’osservazione diretta. Soltanto in questi casi si può parlare di “rischio reale”. Spesso rischio e sicurezza vengono sottovalutati in nome di non meglio specificati “beni comuni”, nella cui valutazione raramente si applica quella regola aurea che dovrebbe guidare il vivere civile e che prescrive di non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te e che il mondo moderno ha il più delle volte trasformato nella sindrome di NIMBY (acronimo anglosassone di “Not In My Back Yard”, cioè non nel mio giardino).
Si tratta di una scelta che in un mondo finito come il nostro non porta mai troppo lontano e che è determinata dal desiderio di mantenere uno status quo che garantisce una rendita di posizione, anche piccola, rispetto agli interessi globali (si potrebbe anche dire universali), che sono i soli sui quali si dovrebbe basare la decisione di assumersi o no un rischio.
Come dimostra di nuovo Fukushima, richiamando la lezione di Chernobyl, il nucleare (ma potremmo sostituirlo con la privatizzazione dell’acqua o certi sistemi di sfruttamento delle risorse) non è una buona alternativa. Tale modello puà essere dannoso soprattutto se si tiene conto non già del “qui e ora” ma degli interessi delle generazioni future, le quali, però, come gli ultimi della Terra, non hanno voce e perciò non sono, come si ama dire, degli stakeholders, ovvero dei “portatori di interesse”.
La conservazione della Terra e dell’umanità passano attraverso la regola aurea e la riduzione dei consumi e nessuno deve pensare di essere troppo piccolo per non fare la sua parte e per non dover obbedire all’XI comandamento: rispetta il tuo pianeta, ricicla e non sprecare le sue risorse.
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